L’edificio è situato in Val Venosta, nel comune di Naturno, a 15 km circa da Merano, in direzione del Passo Resia. La zona su cui sorge l’antica chiesetta di san Procolo venne annessa dai Romani alla provincia Raetia e quindi romanizzata, forse fin dal I secolo d. C. Certo é che intorno al 536 i Franchi, avanzando da occidente, occuparono anche l’antica Rezia e difesero la Val Venosta dai Longobardi, che a partire dall’ultimo scorcio del secolo VI d.C. più volte vi penetrarono (nella lotta contro i Baiuvari che avevano varcato il Brennero). Verso l’800 d. C., quando probabilmente furono eseguiti i famosi affreschi di S. Procolo, in stile pre-carolingo, la zona era ormai definitivamente soggetta l’influenza dei Baiuvari e, quale contea, faceva parte dell’impero Franco. Stando alle ricerche più recenti, il patrono della chiesa, S. Procolo, si potrebbe identificare nell’omonimo vescovo di Verona del IV secolo, tanto più che la vicina chiesa parrocchiale di Naturno è consacrata a S. Zeno, anch’esso importante per la storia della città scaligera. Il nome del santo protettore si era smarrito nei secoli e riapparve soltanto intorno al 1400 su un affresco esterno. Visite: da giugno a ottobre, tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18. Da novembre a maggio la chiave può essere ritirata in canonica (5 min. a piedi).
Cenni storici
Le origini della chiesetta non sono tuttora completamente chiarite, ma è certo che vi si pose mano in epoche diverse. Comunque non è dimostrabile che l’edificio originario coincida cronologicamente con l’applicazione dei primi affreschi (per quanto lo si ritenga probabile, intorno all’800). Fin dai tempi più remoti, la chiesa è cinta di un muro a pianta rettangolare costruito in pietrame da cava, il quale delimita un piccolo piazzale al cui ingresso sorge un’edicola a forma di cappella, restaurata di recente, una volta probabilmente ornata di affreschi gotici (il basamento presenta una cavità che per molto tempo serviva per raccogliere le offerte dei fedeli). Il nucleo dell’edificio è costituito dalla piccola navata a pianta pressoché quadrata, i cui muri unitamente a quello maestro occidentale furono sopraelevati in epoca successiva (presumibilmente nel secolo XII o XIV), murando nel contempo la piccola finestra originaria sul lato meridionale (riaperta nel 1923 all’interno: in tale occasione venne alla luce l’antico portale a sud per aprire l’ingresso occidentale tuttora esistente. Notevoli modifiche si apportarono anche all’abside, originariamente a pianta rettangolare, incorporandovi il campanile che prima vi era semplicemente appoggiato in senso tangenziale: ne derivò un coro alquanto massiccio, rastremato verso l’interno e delimitato in linea retta; il soffitto ligneo fu sostituito con una volta a botte, la finestra fu aperta soltanto nel 1631. Forse le summenzionate modifiche strutturali risalgono soltanto al periodo intorno al 1365 (anno in cui la chiesetta è citata per la prima volta), quando il casato degli Annenberg, che dal 1347 possedeva anche Castel Taranto sul versante opposto della valle, scelse S. Procolo a sua ultima dimora (fino all’estinzione della famiglia nel 1695). Il sepolcro era ricavato sotto il pavimento della navata. Il campanile è di stile romanico, ma (in analogia a quelli di S. Sisinio a Lasa e di S. Giovanni a Tubre) presenta ben pochi elementi che consentano di stabilire la data della costruzione. Comunque la struttura tozza, pesante e per nulla sofisticata, con le bifore e la bassa piramide, e la mancanza di qualsiasi ulteriore elemento ornamentale inteso a snellire la struttura, in base alla comune esperienza locale ci fa pensare al secolo XII. In un secolo successivo (XVII o XVIII?) tutti gli affreschi interni furono ricoperti di tinta, per essere riscoperti solo nel 1912 da Josef Garber e Josef Weingartner. Lo strato gotico, dopo la Prima guerra mondiale, e precisamente nel 1923, fu in parte staccato sotto la direzione del sovrintendente Gerola, singole immagini furono trasferite al Museo di Merano e ultimamente esposte nel Municipio di Naturno; solo in tal modo si riuscì a riportare interamente alla luce lo strato degli affreschi più antichi.




Affreschi del primo Medioevo
Probabilmente in origine coprivano tutte le pareti dell’antico fabbricato ed erano suddivise in una zona superiore e una zona inferiore per mezzo di fasce di meandri intercalate con grande abilità, mentre mancava qualsiasi articolazione verticale. Fatta eccezione per alcune tracce sul muro meridionale, gli affreschi della fascia inferiore sono andati completamente distrutti.Meglio conservata di tutte ed anche più nota è la fascia superiore del muro meridionale. La scena centrale, sotto un tetto a forma di trapezio, sormontato da una torretta campanaria e affiancato da strutture simili a colonne, rappresenta tre personaggi (la testa della figura centrale è andata distrutta) intenti a calare per mezzo di corde un uomo che dall’aureola riconosciamo come santo e che sta seduto su una specie di dondolo; veramente le mani dei soccorritori non impugnano nulla (per mancanza di prospettiva). Questa figura maschile che per tradizione è denominata “dondolante” è stata identificata per l’apostolo Paolo che i seguaci hanno calato dalle mura di cinta di Damasco per porlo in salvo dalle persecuzioni degli ebrei. Ma di recente Otto v. Lutterotti ha dimostrato in maniera del tutto attendibile che deve trattarsi dello stesso patrono della chiesa S. Procolo, il quale, quand’era vescovo di Verona, dovette egli pure aver cercato una via di salvezza simile a quella a suo tempo trovata da S. Paolo. La scena è osservata da destra da un gruppo di sei persone scaglionate nello spazio (in primo piano tre uomini, sullo sfondo tre donne?), di cui la prima tiene in mano un bastone e la terza un libro. Un altro gruppo di persone sulla sinistra invece comprende cinque figure strette l’una contro l’altra (a giudicare dalle vesti dovrebbe trattarsi di donne), delle quali tre sembrano tenere in mano un libro e le altre due delle fiaccole, mentre avanzano in direzione dell’altare. La scena più singolare la vediamo sulla parete occidentale: in essa, che è stata interpretata come immagine votiva (S. Procolo è pure considerato patrono degli animali) vediamo incedere una dozzina di bovini pezzati preceduti da un cane pastore vigorosamente caratterizzato, nonchè da due mandriani delle vesti a pieghi strette da cinture e con calzettoni; purtroppo l’affresco è stato notevolmente danneggiato in occasione dell’apertura del nuovo ingresso, e inoltre sono andate perdute le testi di entrambe l e figure umane, di cui la prima regge in mano un bastone da pastore o una croce. La processione di animali sembra muoversi verso la parete nord, sulla quale ormai possiamo riconoscere soltanto i frammenti superiori di cinque figure di santi e un angelo con in mano una bacchetta. Le figure sembrano sedute e con una mano additano l’altare, mentre nell’altra stringono libri chiusi. Il cattivo stato di conservazione purtroppo non consente un’interpretazione più precisa. Qualche cenno infine alla parete orientale: mentre gli affreschi finora descritti si possono attribuire con certezza un solo autore, su questa parete forse era all’opera un altro artista. Lo fa pensare innanzitutto il motivo a nastri intrecciati di carattere nordico che si alterna al meandro delle fiancate della navata, e inoltre le due figure di angeli sospesi con le aste crociate sull’arco di trionfo, simbolici custodi dell’altare, che con i lembi delle ampie ali sfiorano l’arco di accesso al coro. Sul capo dell’angelo posto a sinistra si possono riscontrare delle correzioni, cosiddetti pentimenti; il frammento di una figura incoronata con cornucopia in mano si può distinguere ancora sotto la figura d’angelo posta a destra, mentre l’analoga illustrazione dall’altro lato è scomparsa del tutto (allegorie della terra e dell’acqua?). Probabilmente anche le pareti della prima abside erano ornate di affreschi della stessa epoca. Nell’imbotte dell’arco di trionfo sono tuttora individuabili nove semifigure con l’aureola nel solenne atteggiamento dell’adorazione, sia pure rese quasi del tutto irriconoscibili dal fumo delle candele e da altri agenti. Per quanto ci troviamo di fronte a testimonianze anche notevoli del periodo gotico, è chiaro che gli affreschi precarlongi sono di gran lunga più pregevoli Possiamo trovare tuttora nel coro alcune immagini gotiche sulla parete dell’arco di trionfo, sulle fiancate sopraelevate della navata nonché all’esterno, sul muro a sud e sulla torre campanaria. I numerosi segni di piccone sugli antichi affreschi risalgono al periodo della sovrapposizione del suddetto strato gotico: le scalfitture erano intese ad assicurare l’adesione del nuovo intonaco. Sulla parete posteriore dell’abside, delimitata in linea retta, dopo il distacco di un crocifissione dipinta verso il 1400, venne alla luce un’analoga scena di epoca anteriore coi due committenti, la quali – come il Cristo al Giudizio Universale nella volta cilindrica dell’abside – rivela un’origine che risale al primo periodo gotico (intorno al 1350). La superficie sovrastante l’arco di trionfo presenta tre immagini di particolare interesse dal punto di vista iconografico: abbiamo in primo luogo la scena dell’incoronazione di Maria da parte di Cristo, in cui una schiera di angeli tiene sollevata una tenda (motivo che in epoca più recente ricorre spesso anche negli altari scolpiti in legno); vediamo poi un’immagine assai intima della Madonna sul trono che allatta il Bambino, il tutto sovrastato da un arco di stile alto gotico, mentre in riquadri simmetrici d’ambo i lato cori giubilati di angeli assistono alla scena. Ma soprattutto dà nell’occhio la raffigurazione del cosiddetto manto protettore, in cui vediamo Cristo e Maria avvolti in larghi manti, sotto i quali l’umanità trova riparo dalle punizioni di Dio Padre, da questi scagliate sull’umanità in forma di frecce che però rimbalzano dai manti protettori. In una fascia del muro meridionale è tuttora conservata un’Ultima Cena., nove discepoli visti di fronte a tre visti di profilo sembrano impegnati in un’accesa discussione, probabilmente dopo aver appreso le parole del Maestro: “Uno di voi mi tradirà”. Sviluppato anch’esso in lunghezza e accompagnato da fregi orizzontali, troviamo sulla parete nord l’ultimo tema trattato negli affreschi gotici. Osserviamo, in successione continua, i Re Magi mentre apprendono l’ordine di far visita al Bambino nella mangiatoia, poi come seguono la stella, e infine in devota adorazione del Bambin Gesù. Il tipo di rappresentazione (i Tre Saggi in veste di cavalieri corazzati, di cui uno a cavallo) ricorda assai il “gotico internazionale” della stessa epoca, con la sua appariscente nota cortigiana. Infine alcuni cenni sul ciclo di affreschi che possiamo ammirare sul muro perimetrale a sud: su due superfici parallele suddivise in quadrilobi per mezzo di fasce decorative e mezzi busti, nella successione delle immagini vediamo sopra una interpretazione alquanto libero della Creazione del Mondo. I valori cromatici originali hanno risentito in misura piuttosto notevole della riscoperta e del restauro. Solo la monumentale immagine di S. Cristoforo sul campanile in quell’occasione non fu toccata, dato che non la si riteneva degna di restauro per il precario stato di conservazione. Nella parte superiore del muro dunque riconosciamo le scene della creazione del cielo e della terra, del sole e della luna, dei pesci e delle piante, degli uccelli e degli animali terrestri, la creazione di Eva, il peccato originale e il riposo del Signore. Nella sequenza in basso vediamo le conseguenze del peccato originale: la cacciata del Paradiso, Adamo ed Eva intenti rispettivamente a zappare e a filare e costretti a faticare con l’aratro e con l’erpice; ma della massima importanza è per noi la figura del vescovo seduto e benedicente, identificabile in base alla scritta, ormai di ben difficile lettura, “Sanctus Prockulus Episcopus”. Solo in questo punto è rimasto tramandato il nome del patrono della chiesa!



Considerazioni storico-artistiche
Eccettuate le due raffigurazione all’interno del coro, di cui abbiamo già parlato, probabilmente tutti i restanti affreschi gotici risalgono allo stesso periodo, compreso fra il 1390 e il 1420 circa. Per quanto il nome dell’artista non ci sia stato tramandato, il periodo in cui l’opera fu creata può essere stabilito in base ad un confronto stilistico con affreschi di analoga forma espressiva. Ben difficilmente si andrà errati se si accostano i dipinti in parola a quelli realizzati da un maestro tuttora sconosciuto a S. Giorgio a Scena e a quelli del maestro Venceslao, che nel 1415 ha firmato la propria opera nella cappella del cimitero di Rifiano.
Gli affreschi gotici di S. Procolo sono interessanti in primo luogo per il loro contenuto, mentre la qualità dell’esecuzione è più modesta. D’importanza tanto maggiore, se non addirittura unici nel loro genere sono gli affreschi del primo Medio Evo, che ormai tutti considerano pre-carolingi e risalenti al periodo intorno all’anno 800 d. C. Mentre i più additano come matrice stilistica le miniature irlandesi ed anglosassoni (tramite S. Gallo o Salisburgo), si sono pure espresse delle opinioni (N. Rasmo) orientale più verso il sud (zona di Cividale e Aquileia). Sembra anzi che siano state all’opera due personalità diverse, di cui una avrebbe maggiormente attinto dalla scuola nordica per eseguire, con la mano del disegnatore soprattutto e in tinte fresche, gli angeli e la fascia d’intrecci decorativi sul muro a est; a un altro maestro sembra dobbiamo gli affreschi della navata, dove nella fascia di meandri e nella maggiore policromia in parte addirittura sfumata rivivono i ricordi dell’arte antica.
La leggenda di S. Procolo
Il nome Procolo induce ad orientarsi a meridione, donde senz’altro arrivò la prima ondata missionaria in epoca romana più avanzata. A tale proposito è rilevante che la chiesa parrocchiale dello stesso Comune di Naturno sia consacrata a S. Zeno, vescovo di Verona morto nel 372. Ma anche a Verona, non lontano dalla famosa chiesa di S. Zeno, sorge un edificio di culto dedicato a S. Procolo. E’ quindi facile concludere che quello di Naturno fosse lo stesso santo al quale è consacrato il tempio scaligero. Nell’area mediterranea si conoscono non meno di una trentina di santi che portano questo nome pressoché sconosciuto nell’Europa settentrionale, e fra di essi anche un vescovo-martire Procolo vissuto a Verona nel quarto secolo d. C. che fu anche vescovo della città e vi morì verso la fine del secolo. Gli Acta Sanctorum dei Bollandisti (Gruppo di Lavoro per l’edizione delle vite dei santi), in data 23 marzo in proposito recita:Il luogotenente romano Anulinus perseguita la giovane comunità cristiana e affida ai carnefici certi Firmus e Rusticus. Per timore di ulteriori persecuzioni i cristiani fuggono dalla città e con essi anche il loro pastore Procolo, per rifugiarsi nei dintorni. Ma ben presto Procolo vuole ritornare a Verona a professare il proprio cristianesimo e a morire da martire assieme ai propri amici. Sennonché il proconsole Anulinus crede di avere a che fare con un pazzo, lo insulta e lo fa bandire da Verona. Procolo giunge in Oriente, vi esplica un’attività benefica, compie miracoli – in particolare fa sgorgare acqua dall’arida rena a refrigerio di uomini e animali. Infine torna nella città natale di Verona e vi muore quasi centenario. In analogia fuga dell’apostolo Paolo dalle mura di Damasco, la fuga ossia la scena della clava negli affreschi della chiesetta di S. Procolo a Naturno può essere agevolmente correlata con la vicenda occorsa al vescovo di Verona, quale è descritta nella storia della sua vita.